Qualche numero. Le vendite di oggetti di lusso, a livello mondiale, lo scorso anno sono arretrate del 22% (a 217 miliardi di euro) andando a interrompere una crescita che sembrava quasi inarrestabile dagli anni ‘90. In questo segmento, è determinante la quota della Cina. In epoca pre-Covid, fra i 150 milioni di viaggiatori cinesi, lo shopping era la motivazione numero uno. Non a caso, il 70% degli acquisti di lusso dei cinesi avveniva fuori dai confini nazionali. “Ma è qui che il Covid ha creato il primo cortocircuito” ha spiegato Marco Passoni. “Impossibilitati a viaggiare, hanno iniziato a spendere dentro i confini nazionali, con un aumento del 48% sul 2019 per quanto riguarda il lusso, complici gli interventi del governo di Pechino che ha fatto esplodere fenomeni come la mega area duty free dell’isola di Hainan. Un territorio su cui si stima, nel 2025, vendite complessive per 50 miliardi di dollari”. Certo i cinesi continueranno a viaggiare. Ma come volumi di traffico, torneranno ai livelli pre crisi solo nel 2027. E una parte dello shopping svolto all’estero non tornerà più. Secondo una ricerca di Bain&Capital, a livello mondiale e non solo riferita alla Cina, nel 2025 il mercato dei beni di lusso varrà 330-370 miliardi di euro, ma almeno due terzi di questa spesa sarà appannaggio di consumatori “domestici” e solo un terzo a “turisti”. Una sterzata pesante, per il travel retail, considerando che nel 2015 le due fette si dividevano la torta al 50%.
A fronte di queste dinamiche, quali saranno i cambiamenti di cui tener conto? “Primo. I cinesi saranno sempre centrali, anche perché il profilo dei loro viaggiatori è più giovane, a livello anagrafico, rispetto a europei o americani. Ma una parte del loro travel shopping, inutile negarlo, non tornerà più” sintetizza Passoni. “Poi, cambierà il ruolo del negozio fisico, non più esclusivamente luogo deputato alla vendita, ma vetrina con cui lavorare su engagement e fidelizzazione del cliente. Di conseguenza, accanto ai grandi flagship store, pur sempre centrali, prenderanno piede le formule più leggere come pop-up e temporary shop”.
E altri cambiamenti andranno “digeriti” anche negli aspetti più tecnici e pratici del business. “I grandi brand tenderanno sempre di più a voler gestire direttamente il negozio, per mantenere un controllo più saldo sulla customer experience. E questo anche in risposta a uno scontrino medio che, negli anni, è rimasto fermo, benché la spesa complessiva del travel retail crescesse” ha spiegato Passoni. In più, vedremo sempre più esperimenti di collaborazione fra marchi, “un’esperienza improponibile fino a poco tempo fa” ha aggiunto l’esperto.
Persino l’aspetto contrattuale, nel rapporto tenant-proprietario, verrà modificato. “Già durante la crisi sono stati scardinati alcuni aspetti” ha suggerito l’esperto “rispetto alla struttura classica di oggi basata su quota fissa e variabile”. In futuro, avremo un rapporto più equilibrato fra le parti, ossia non troppo sbilanciato a favore del proprietario. Infine, c’è da decifrare tutto il tema dell’omnicanalità e della funzione del digitale, ancora un rebus perché il ruolo dell’on line è difficilmente collocabile in un’esperienza d’acquisto “di passaggio” come quella del travel retail. In modo particolare, i grandi marchi sono restii, ad esempio, a essere inseriti in un grande marketplace aeroportuale, insieme agli altri concorrenti. “È comprensibile” conclude Passoni, “ma la strada è tracciata e porta in questa direzione”.